I quattro hanno marciato sotto il sole nella pioggia e nel vento, nel fango delle strade, sul ghiaccio e sulla neve – per le lande fiorite, nei deserti della morte – di giorno, di notte, verso la vittoria e verso le perdite tremende. Ma questa fu la loro ultima marcia.

Quattro soldati, che portano i nomi di Job, Müller, Lornsen e “lo studente”, raccontano attraverso i loro occhi l’esperienza della prima guerra mondiale sul fronte francese. I quattro, per tutte le volte che l’hanno scampata alla signora con la falce, si vocifera siano ripudiati dalla morte. Le loro parole raccontano bombardamenti spaventosi, marce nella neve, compagni caduti nei modi più indicibili: sono la voce di centinaia di migliaia di soldati, morti a Verdun, sulla Somme, a causa dei gas o dello scoppio di una granata, che adesso riposano senza un nome. Sono la voce di uomini sottratti alla vita; essi implorano che tutto ciò non si ripeta più.

Quello di Ernst Johannsen è un racconto molto toccante. La traduzione italiana, ad opera di un invalido di guerra, rende con maggiore limpidezza l’esperienza di guerra al lettore, che ne tasta la crudeltà pagina dopo pagina. Non mancano momenti più leggeri, che a tratti fanno pensare ai “maledetti da Dio” di Sven Hassel, mentre altre volte si rivedono all’interno dei protagonisti (Job in particolare) i tratti caratteristici di personaggi come il Kat di Remarque o del Vecchio Unno.

“L’uomo è Dio; l’uomo è un pazzo; l’uomo è un demonio.” Questo leitmotiv è il filo conduttore di tutto il racconto, e non mancano riflessioni profonde sul senso della vita, della morte, della guerra e dell’esistenza in sé. I toni, delicati, contrastano con la crudezza degli avvenimenti, che non sono legati da una vera e propria trama: le parole fanno da finestra su un mondo lontano, ma ancora incredibilmente vicino, che la memoria non può e non deve dimenticare.