“Non c’erano piú le cose, non c’erano piú gli uomini, ma solo il lamento degli uomini.”

❄️ Le memorie della ritirata di Russia di Mario Rigoni sono sicuramente tra i racconti di guerra più famosi nella letteratura italiana, dei quali la maggior parte avrà già sentito parlare in un modo o nell’altro. Appena cominciato avevo già potuto intuire come si sarebbe evoluto: parte leggermente, illustrando abitudini e aneddoti dei vari soldati, arricchiti da episodi di cameratismo che ti fanno affezionare ai protagonisti, per poi diventare un concentrato di dramma e sofferenza, più duro di quanto le mie parole riescano a descrivere. È una sensazione che ti accompagna pagina dopo pagina: mentre i vari plotoni tentano di uscire dalla sacca, cercando di sfuggire alla furia russa, cominci a sentirti un po’ come Rigoni. I suoi camerati diventano i tuoi camerati, mentre le bestemmie di Antonelli ti rimbombano nelle orecchie e Giuanin ti chiede se arriverete a baita. I lutti ti colpiscono come se le pallottole fossero passate davanti ai tuoi occhi, e la sofferenza e la disillusione nei confronti della vita e della realtà si impadroniscono della tua mente, fino all’ultima pagina: solo quando Mario Rigoni diventa lo spettro di sé stesso, si rende conto che un briciolo di umanità è ancora salvo, al riparo dalla gelida neve della Russia.

«Sergentmagiú, ghe rivarem a baita?»

Molti non ce l’hanno fatta, altri invece sì, ma parte di me non ci è arrivata con loro a baita: è rimasta intrappolata nelle pagine di questo libro.